Mahdî Brecq (École Pratique des Hautes Études)
Au service de Sa Majesté: Bróðir Róbert et son œuvre littéraire
In the preface to Tristams saga ok Isǫndar it can be read that the statement of this Norwegian translation of the Tristan written by Thomas d’Angleterre (Tumas de Britanje) was made in the year 1226 at the request of worthy King Hákon by a certain bróðir Róbert, and the penultimate sentence of Elíss saga ok Rósamundu tells that this translation of the French Élie de Saint-Gilles was made by a certain Roðbert ábóti, also at the behest of King Hákon. Knowing the name of an author or translator in medieval Scandinavia is rare, and luckily the name Róbert is preserved in dedications. Unfortunately, little is known about his life, except that he may have been AngloNorman. But it remains his literary work, unprecedented in Scandinavia, making him one of the major literary figures in the Middle Ages for having introduced to the court of King Hákon vernacular prose adaptations of a number of medieval French literary works (it is assumed that he translated two of the romances of Chrétien de Troyes, most of the Lais of Marie de France and Le mantel mautaillié). Behind the dedications of the translations, and the study of the translator’s style, considered courtois, perhaps there is more to learn about this author‒translator.
Davide Salmoiraghi (University of
Cambridge)
At snúa – at setja saman. The authorial status
of the medieval translator in the composition of Old Norse Saints’ sagas
The paper addresses the issue of the hybrid nature
of the scribe in connection to the process of translation within the culture of
the Norse Middle Ages. Particularly, translation from and adaptation of Latin
hagiographies (Heilagra manna sǫgur) constitutes the main genre under scrutiny.
A series of case-studies enables to unveil the policy employed by Medieval
translators in the adaptation of a text from source to target culture at
different stages of the genre’s tradition(lat 11th - 16th century). The
methodology of Descriptive Translation Studies as developed by Even-Zohar
and Toury constitutes the framework that enables to consider such texts as products
of a specific historical context and their producers as active agents in the
construction of their culture’s literary system. Thus, it makes it possible to
evaluate the latters’ translational policy as a set of authorial decisions,
taken in the light of a creative effort that responds to the needs of a historically-set
community of readers. The specificity of the genre also points to the Norse approaches
to translation as the primary sign of the culture’s entrance in the Continental
literary panorama.
Omar
Khalaf (Università degli Studi di Padova)
Ciò che Orosio (non) dice. Auctoritas e autorialità nella
traduzione antico inglese delle Storie contro i pagani di Paolo Orosio
La traduzione
antico inglese delle Historiarum adversos paganos libri septem di Paolo
Orosio, realizzata da un anonimo nel X secolo, è tradizionalmente inclusa all’interno
del programma culturale promosso da re Alfredo del Wessex e noto come rinascenza alfrediana. L’intensa opera di rielaborazione della fonte ha
determinato la creazione di un’opera affatto peculiare e che si caratterizza
per l’omissione o la riscrittura di porzioni testuali talvolta rilevanti di
cui, da prassi tipicamente medievale, non è mai rivendicata la paternità. In
questo caso, l’ «invisibilità del traduttore»
(Venuti 2008) assume tratti particolarmente interessanti: le riflessioni
personali che Orosio inserisce nell’opera sono fatte oggetto di attenzione
specifica da parte del traduttore inglese, il quale non solo ne elimina alcune
e ne modifica altre, ma addirittura ne crea di nuove attribuendole allo stesso
autore latino. Come il mio intervento si propone di dimostrare, questo fenomeno
appropriazione di aucoritas si rivela essere fondamentale
nell’orientamento ideologico della traduzione e, di conseguenza, nella sua
interpretazione nel sistema culturale e politico inglese del tempo.
Gabriele Cocco (Università degli Studi di Bergamo)
È
davvero Sant’Agostino la sola auctoritas nell’ Omelia 24 (86-92) di Ælfric?
Nell’Omelia In
festivitate S. Petri apostoli (CH II 24), Ælfric di Eynsham tratta il
miracolo in cui Cristo cammina sulle acque davanti agli apostoli attoniti che
lo guardano da una barca (Mt 14,22- 36). Partendo da quell’evento prodigioso,
l’abate di Eynsham illustra l’esegesi della peregrinatio animae su un
vascello per il salum saeculi citando come fonte della sua esposizione se
mǽra Augustinus (il grande Agostino). Benché Ælfric annoveri solamente l’auctoritas
del Vescovo di Ippona, anche altre opere dei Padri della Chiesa a lui note
offrivano intepretazioni autorevoli del passo in questione, fra cui il Commentarius
in Evangelium Marci del Venerabile Beda (II.1083-7). Ælfric avrebbe citato
la teologia di Sant’Agostino per suggellare il proprio pensiero nonostante lo scritto
cui faceva riferimento sia per altro un’opera pseudo-agostiniana (Sermo 72;
PL 39). Questo lavoro vuole dunque considerare la particolare scelta
autoriale di un omileta erudito e scrupoloso nel citare le fonti.
Olena
Igorivna Davydova (Università degli Studi di Roma "La Sapienza")
Molte persone sotto lo stesso nome: Mandeville come autore-personaggio nel Voyage d’Outremer e nelle sue rielaborazioni
Una delle opere più note dal XIV secolo in
poi è senz’altro il Voyage d’Outremer di Jean Mandeville, che descrive
il proprio viaggio da Gerusalemme all’Estremo Oriente. La fortuna dell’opera fu
straordinaria: oltre 250 manoscritti, diverse edizioni a stampa, rifacimenti e
traduzioni in quasi tutte le lingue europee dall’originale anglonormanno. Solo
secoli dopo si scoprì che un Jean Mandeville non è mai esistito ed è ancora
oggi difficile stabilire l’identità dell’autore del Voyage. Un’importante
rielaborazione del testo a opera di Jean d’Outremeuse servì come punto di
partenza per diverse traduzioni, tra cui la versione latina Vulgata.
Il contributo intende mostrare come il redattore-traduttore della Vulgata elabori
il Voyage con un atteggiamento a volte radicalmente diverso rispetto al
testo di partenza, senza però emergere in prima persona. Si evidenzierà come
tre autori (Mandeville, d’Outremeuse e il redattore latino) si sovrappongano in
un solo narratore personaggio.
Lucia
Bertolini (Università eCampus)
Autore
storico, autore implicito e autotraduzione
La scelta
dello strumento linguistico definisce e determina le interrelazioni fra testo e
autore storico, fra prodotto e
produttore; il cambio di strumento linguistico nel caso specifico delle autotraduzioni ridefinisce tali coordinate,
coinvolgendo, all’interno del testo, anche la figura dell’autore implicito. Di solito studiate alla luce del cambio di utente e di destinatario, le
autotraduzioni di tipo verticale (fra
latino e volgare, non di necessità in tale seriazione cronologica), meritano di essere analizzate anche dal punto di
vista (eminentemente filologico) della rappresentazione di sé che l’autore offre nell’una e nell’altra
versione.
Il mio
intento è quello di analizzare da tale specifico punto di vista un corpus
consistente in una trentina di testi,
cronologicamente concentrati nel XV secolo, di autori attivi su territorio italiano,
appartenenti a differenti generi letterari, tanto in prosa che in poesia.
Federica Perotti (Università degli Studi di Trento)
Varianti d’autore tra Epistola Synodica e Regula Pastoralis
La
composizione dell’Epistola Synodalis, scritta da papa Gregorio Magno
all’inizio del pontificato e rivolta ai patriarchi delle sedi apostoliche, è
stata per lungo tempo ritenuta successiva a quella della Regula pastoralis,
opera gregoriana con cui condivide alla lettera gran parte del testo. Una minuziosa
analisi filologica tuttavia ha evidenziato elementi che mostrano come il
dettato della Synodica sia stato invece reimpiegato per la stesura dei
primi capitoli della Regula pastoralis. L’inversione nella cronologia
delle due opere comporta pertanto una significativa rivalutazione dell’Epistola,
che da "centone di estratti delle Regula pastoralis" (Grégoire, 2008)
assume il prezioso valore di serbatoio di varianti autoriali - varianti che
permettono di comprendere appieno l'evoluzione del pensiero gregoriano in
merito ad alcune specifiche questioni dottrinali.
Fabio
Mantegazza (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino)
Cogitosus,
imperitus. Sull’autorialità di un testo agiografico iberno-latino
Nel discretamente nutrito dossier agiografico
su santa Brigida, ruolo particolare assume la Vita secunda, così
chiamata dalla sua posizione negli Acta Sanctorum. Essa appare, con
alcune riserve, come la più antica opera dedicata alla santa pervenutaci;
contribuisce alla sua importanza, inoltre, il fatto che si tratta di una delle
più antiche agiografie irlandesi dotate di autore, e di una delle prime opere
autoriali d’Irlanda in assoluto.
Tuttavia, il nome del suo autore – Cogitosus, evidente latinizzazione di un
originale gaelico – è oscuro tanto a noi quanto ai numerosi copisti medievali,
che spesso lo omettono o lo interpretano in maniera erronea: questa situazione
configura la Vita come un testo a basso livello di autorialità (Guglielmetti
2019), soggetto quindi a numerose riscritture e ad alta manipolabilità. L’intervento
mira a delineare un profilo della questione, andando ad analizzare quanto e
come l’autorialità di un testo possa influire sulla ricostruzione critica dello
stesso.
Matteo
Salaroli (Università degli Studi di Firenze)
Il
paradosso medievale dell’Autore: varianti sospette nella tradizione dei Gesta
Karoli di Notkero Balbulo
Di fronte a più versioni di uno stesso testo il filologo deve appurare l’esistenza di varianti d’autore e determinare l’eventuale gerarchia tra le redazioni, individuando il contesto e le ragioni che hanno spinto l’autore o il redattore a modificare l’opera. A tale riguardo, la tradizione dei Gesta Karoli di Notkero Balbulo di San Gallo – testo forse incompiuto, mutilo del prologo e del finale – costituisce un caso particolarmente spinoso: accanto a singoli testimoni che tramandano una forma compendiata o interpolata dell’opera, identificabili su base stemmatica come sede di redazioni non autoriali, esiste una famiglia formata da due codici in cui tagli e banalizzazioni palesi convivono con aggiunte potenzialmente originarie. Le implicazioni di questo paradosso testuale inducono una riflessione sull’evanescenza “filologica” dell’autore nel caso di tradizioni frammentate, e sulla possibilità di perturbazioni stemmatiche dovute al medesimo contesto culturale di cui l’autore è prodotto.
Giacomo Pirani (Università degli Studi di Pavia)
Salva ergo reverentia... Difesa e rifiuto delle auctoritates nella musicografia del Quattrocento
La pressante ricerca della
sanzione dell’auctoritas nella Fachliteratur musicale del
Quattrocento dimostra come allora emergesse alla consapevolezza degli autori l’esistenza
di una tradizione musicografica secolare con le sue profonde nervature ed
irrimediabili fratture. Contestualmente avvenne la presa di coscienza della
storicità e della distanza – da cui procedeva il diversificarsi dei giudizi e
delle opinioni – che separava i musicografi del XV sec. dai loro predecessori. La
discussione sull’autorevolezza delle dottrine storiche e sull’autenticità dei testi
in senso critico-filologico condusse al disvelamento di un’autorialità forte in
un genere tecnico-specialistico normalmente refrattario alla personalizzazione
dell’autore. Tale processo sarà presentato seguendo la disputa tra Nicolò
Burzio e Bartolomé Ramis de Pareja, sviluppatasi nell’ultimo quarto del XV sec.
e riguardante la validità e la normatività delle dottrine di Boezio, Guido
d’Arezzo e Giovanni Gallico da Namur.
Mihajlo Bozovic (İbn Haldun Üniversitesi)
Medieval authority between collective memory and
patron
Giulia
Fanetti (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna)
Tra canto e racconto: l’autore-editore della Bucovina e il caso L.A. Staufe Simiginowicz
Nell’ambito
degli studi postcoloniali si parla spesso di dare voce a chi per troppo tempo
non l’ha avuta. Ma da un punto di vista editoriale, questa espressione è
errata: si tratta piuttosto di fornire ascoltatori a voci da sempre esistite.
Questa attenzione verso l’altro era una solida realtà nella Bucovina tra XIX e
XX secolo: nella piccola e sperduta regione dell’impero austro-ungarico, oggi spartita
tra Ucraina e Romania, vivevano molte etnie, confessioni e concezioni di mondo,
un pot-pourri così affascinante, che gli autori tedescofoni non potevano
fare a meno di descrivere: si diffonde allora il filone della “letteratura
etnografica” come osservazione – attraverso vari generi letterari – del diverso.
Non solo: molti autori si dedicano alla divulgazione di testi di altri autori
del luogo, creando spazi per le voci altre, spesso trascrivendo storie
orali. In una terra segnata da continue occupazioni e imposizioni di lingue
altrui, l’oralità corrisponde però ad attività sovversiva, libertà creativa:
l’autore-editore dà continuità a questo istinto di sopravvivenza o lo soffoca
attraverso la forma scritta, che porta con sé aggiunte di filtri e spesso
omissioni? In questo panorama si inserisce Ludwig Adolf Staufe Simiginowicz e
il suo racconto Der Klosterbau. Erzählung aus dem romänischen Volksleben (1870).
Egli non si limita a riportare una leggenda rumena, dunque a trasformare
l’oralità in scrittura: infatti, dopo aver scoperto nelle sue ricerche
“etnografiche” il ruolo imprescindibile del canto nella tradizione orale di
quel gruppo e che ogni canzone comincia necessariamente con una dedica a una
pianta specifica – a seconda che si tratti di un racconto eroico, d’amore, di
morte, etc. –, decide di sfruttare queste informazioni per trasformare la
scrittura in oralità. Non rielabora, aggiunge performance, riuscendo
così insieme a raccontare e a cantare.
Francesca
Ferrucci (Università degli Studi della Tuscia)
Autorialità
di confine: idiomi, culture e forma letteraria
I sonetti romaneschi di Belli interrogano la questione dell’autorialità da più punti di vista: filologico, per la disponibilità degli appunti e dell’Introduzione che gettano luce sul processo produttivo e sul suo movente originario; linguistico, nella riflessione sulle pietre da costruzione della semantica del testo e sul costituirsi ultimo del senso dentro la volontà comunicativa che lo ha generato e/o oltre essa. Nel paratesto, l’autore elabora un’immagine discorsiva di sé, nel rapporto dialettico con il mondo popolare rappresentato: l’intervento ne analizza il valore dirompente di messa in crisi di un assetto antropologico e politico e al contempo ne evidenzia l’esito preterintenzionale, documentato dalla volontà nel 1849 di bruciare il corpus. In questo conflitto si manifesta una dualità di Belli come uomo di confine tra un’epoca e la sua fine, riportando l’accento sul possibile ruolo della letteratura come anticipatrice di scenari e sugli strumenti e le forme di cui si avvale.